Questo romanzo che non è un romanzo è vero che è:
eccessivamente lungo, a tratti noioso anzi talmente noioso da appoggiarlo sul comodino e dimenticarsene per un poco, ripetitivo, innervosente (soprattutto quando, e ancora una volta, si mettono a confronto i bei tempi andati con le generazioni di oggi, e dai basta!). Insomma si sarebbero potute tranquillamente usare le forbici senza temere di passare per censori.
Però questo romanzo che non è un romanzo è anche:
onesto, si percepisce la volontà della ricerca della verità, prima di tutto nei confronti di se stessi, di chi si era, di chi si è e come si è arrivati ad essere quello che si è; per chi quei tempi li ha solo sentiti raccontare (e per quel che mi riguarda da mio nonno più che da mio padre) è direi, quasi un manuale sociologico che in fondo riesce a fare almeno immaginare gli scontri ideologici così forti di quei tempi. Ed è una riflessione aperta sulla propria generazione (o perlomeno su quella fetta della propria generazione che si è conosciuta) e se esiste davvero qualcosa che si chiama generazione. Ma, ancora di più, è una riflessione sull’essere uomo: come declino questo essere quello che sono? Se fra le persone che conosco ci sono 5, 10, 20 stupratori, lo sono anche io almeno un poco? E’ un libro retorico sui mea culpa degli uomini? Fortunatamente no. E’ un libro femminista? Ancora meno. E’ un libro scritto da un uomo per gli uomini che pone domande e si da risposte (anche se confuse a volte) che sarebbe ora si ponessero.
Insomma, all’interno dei tanti difetti di questo libro, ho trovato una scrittura interessante, forte, anche poetica nella ricerca di una verità che alla fine non esiste o se è esiste è sempre parziale e dipende dalla porzione di realtà che si è avuto la fortuna (o la sfortuna) di vivere. Per cui il mio giudizio complessivo è buono, anche se condivido molti dei difetti che gli sono stati trovati.